RESILIENZA O RESISTENZA?

di Mauro Presini Maestro Scuola elementare

Oggi, a scuola, parlando di cosa renda felici i bambini e le bambine della classe prima, Marco ha risposto “le coccole”.

(Marco naturalmente è un nome di fantasia. In realtà il bambino si chiama proprio Marco ma per il rispetto della privacy non posso usare il suo vero nome, quindi scrivo il nome di Marco che non è quello con i capelli castani che ha detto “coccole”, ma l’altro Marco quello con le lentiggini che a merenda mangia sempre il pinzone unto bisunto e che ha detto che lo rende felice “andare al mare”).

 

Marco ha risposto: le coccole ed io, fingendo di non capire, ho chiesto se le coccole fossero i frutti del cocco.

Sono bambini, non sono mica tonti, lo sanno bene cosa sono le coccole.

Però ci siamo divertiti a giocare immaginando un albero di abbracci, carezze, massaggi e di parole dolci.

E poi via a fantasticare sulla lunga fila di persone bisognose di coccole davanti al tenerissimo fruttivendolo… oppure al mare, sotto l’ombrellone, con il carretto che passava e quell’uomo che gridava: “Coccole, coccole belle”… oppure ancora al ristorante, dopo l’ordinazione delle coccole, quando il personale che serve ai tavoli diventa di una dolcezza rilassante persino diabetica.

Insomma, questo per dire che sarebbe un piccolo pezzo di mondo diverso se le parole potessero davvero operare una trasformazione attribuendo nuova identità alle cose.

Marco fa la prima elementare ed io quest’anno ho una prima elementare… o meglio: quest’anno sono in quella prima elementare… sì lo so che l’ex ministro Moratti vuole che si dica “primaria” ma io mi ostino a chiamarla “elementare” perché mi sembra più coerente.

E poi non suona mica bene dire: “Ho una prima primaria oppure sono in prima primaria”.

Fra l’altro, pare che l’ex ministro, vicino al PierPresidente che è vicino al PierEditore che è vicinissimo alla PierMondadori, abbia provato tenacemente ad imporre la sua trasformazione in “primaria” in altri campi, anche a costo di fare del revisionismo letterario. Povero Sir Arthur Conan Doyle… dai, non ci starà mica bene che Sherlock Holmes, alla fine di un finissimo ragionamento deduttivo, si rivolga all’amico con sufficienza sottolineando: “Primaria, mio caro Watson!”

Non sta bene neanche se fatto con… letizia, quella con la elle maiuscola.)

Ma è una questione di parole, di parole che, anche se non ci stanno bene, vogliono trasformare la realtà condivisa e consolidata, attribuendo nuove identità.

Qualcuno ha provato a trasformare la realtà anche partendo dalle parole, altri continuano a provarci con i tagli alla scuola pubblica, all’università, agli enti locali. Ci provano con le parole e con i fatti. Ma la cosa che i trasformatori e i distruttori hanno capito bene è che la realtà si cambia, non tanto quando sono state cambiate le parole o si è messo in ginocchio quel sistema privandolo dei necessari investimenti economici e formativi ma, quando si riesce a cambiare il modo in cui questa realtà viene vissuta dalla gente (leggi Brunetta, Tremonti e Gelmini e vedi “insegnanti fannulloni”, vedi “tre maestre in una classe di cui due al bar”, vedi “troppi stranieri”, vedi “siamo indietro in Europa”, vedi “l’Invalsi dice che siamo ignoranti”, vedi “gli handicappati fanno perdere tempo”, ecc.).

A questo punto diventa quindi determinante il ruolo che noi assumiamo affinché questa realtà venga fatta vivere all’esterno (ma anche all’interno) nella maniera corretta. Noi che siamo gli insegnanti, gli studenti, i collaboratori, i dirigenti, gli educatori, i cittadini che difendono la scuola pubblica perché credono che questa politica abbia già iniziato a mettere le radici per una società meno giusta, meno solidale, meno dignitosa, meno istruita.

Noi, con il nostro lavoro quotidiano fatto di incontri, di rapporti, di relazioni e fatto anche di parole: parole giuste, chiare, selezionate, dense, significative, mature e dirette. Parole che trasformano e che lasciano immaginare. Parole che restituiscono dignità. Parole che creano identità.

Ecco ancora che, in questo concerto di parole, fra tutte quelle che suonano nella mia testa, ce ne sono due che, in questo periodo durissimo di inizio anno scolastico, scandiscono ritmicamente i miei pensieri: resilienza e resistenza.

Attenzione sembrano simili ma il loro significato non lo è. E la corretta percezione del loro significato riguarda qualcosa che ha a che fare profondamente con il nostro atteggiamento nei confronti dei cambiamenti che stanno distruggendo la scuola pubblica.

So che molti sanno benissimo la differenza ma, provo a dire, che la resilienza, ad esempio in senso informatico, è la capacità di un sistema di resistere all'usura in modo da garantire la disponibilità dei servizi erogati. In psicologia è qualcosa che ha a che fare con la capacità di affrontare e superare le avversità della vita, adattandosi alle nuove situazioni.

La resistenza invece è la capacità dei materiali di resistere a forze esterne prima della rottura. E poi è… la Resistenza: un’esistenza con la R davanti: la R di rabbia, la R di ruvido, la R di rumore ma anche la R di relazioni, la R di radici, la R di risorse, la R di risposte, la R di raccontare.

Al secondo anno di tagli drammatici alla scuola, di fronte alla normale e silenziosa accettazione di molti, mi chiedo di che materiale siano fatti se riescono ad adattarsi così bene a nuove situazioni sempre più impegnative?

Fino a che punto molti saranno capaci di affrontare le avversità imposte dai tagli, dalle politiche di svilimento della scuola pubblica aggiustandosi con apparente disinvoltura alla nuova situazione?

Fino a quando l’aumentato numero degli alunni nelle classi, gli orari ridotti, gli spazi sempre più angusti, la mancata assegnazione del personale di sostegno, l’eliminazione dei supplenti, l’imposizione dell’ora di religione cattolica, la mancata attivazione delle attività alternative, l’illusione del maestro unico, la carenza di personale ATA, il proliferare di spezzoni, l’eliminazione della professionalità di colleghi precari su cui si è investito a lungo, saranno accettati e mostrati come normalità?

Fino a dove arriverà la capacità di sopportare e di mostrare che tutto comunque funziona?

Fino a quale momento qualcuno si illuderà che tutto questo non sia gravissimo?

Fino a che limite si spingerà la speranza di chi pensa che tutto si potrà poi cancellare in pochi mesi?

How long? Baby, how long? Se lo chiedeva cantando, fra gli altri, Howling Wolf con una voce ruvida da far la punta alle matite.

A proposito di musica e di voci ruvide ai primi di settembre, ancor prima di iniziare la prima, sono stato allo stadio di Bologna per il concerto di Ligabue. Mi piacciono le canzoni ed i film di Ligabue (non si vive mica di solo blues) e poi ci sono diverse cose che sento in comune: io sono arrivato in questo mondo il 12 marzo, lui il 13 marzo (anche se di due anni dopo). Prima del sessantotto, sapevo bene la filastrocca: sarti-burnich-facchetti, bedin-guarneri-picchi, jair-mazzola-domenghini, suarez-corso e mi sa che proviamo entrambi, seppur in modi diversi, a ricordarla e a viverla soprattutto nel senso internazionale del termine e non solo in quello calcistico. Dopo il sessantotto, in comune… beh, dopo il sessantotto il settantasette e allora: “Non è tempo per noi che non vestiamo come voi. Non ridiamo, non piangiamo, non amiamo come voi. Forse ingenui o testardi, poco furbi casomai…Non è tempo per noi e forse non lo sarà mai!”

Quel concerto è stato bello: scelta dei brani, musicisti, volume, luci, effetti, tecnologia. Tutto studiato nei minimi particolari.

Ma la bellezza è stata addirittura strana: quasi distaccata, senza passione! Perfetta!

Nella musica dal vivo, io però preferisco l’imperfezione appassionata: quella dell’arrangiamento diverso, quella della voce sporca, quella dell’improvvisazione, quella del fuori programma, quella del gesto fuori posto.

In generale invece, mi piace l’imperfezione stupenda che si identifica nel tempo imperfetto che usano i bambini quando decidono di giocare insieme.

Loro infatti usando un tempo del passato nel presente lo fanno diventare già futuro: “Facciamo che io ero Zorro e tu eri Wonder Woman; tu mi inseguivi ma non mi catturavi mai”.

Vuol dire adesso, nel presente, decidiamo di giocare: io e te, in quel futuro diventeremo altri, perché abbiamo un passato in comune, sappiamo come vogliamo che sia il futuro ed il modo per arrivarci lo troveremo insieme durante il percorso.

È molto meglio di un errore grammaticale o linguistico; è un inno al cambiamento che nasce dall’immaginazione di un futuro diverso appoggiato su un passato comune.

Per quanto tempo qualcuno continuerà a pensare, parlare ed immaginare ancora al presente?

Per quanto tempo la paura di resistere farà sembrare accettabili anche le più indecenti manovre?

Fino a quando le parole rimarranno suoni di sottofondo nel concerto dell’indignazione evanescente in FA minore?

Quanto serve ancora per alzarsi e parlare, opponendosi in tal modo al delirio distruttivo?

How long? Baby, how long? Se lo chiedeva ululando Howling Wolf, con una voce ruvida da grattar via l’asfalto dalle strade.

Comunque ve lo chiediate, buona resistenza.

Per essere informato degli ultimi articoli, iscriviti: